L’ascensore: il palcoscenico condominiale

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C’è un’umanità che resiste, che convive, che sbuffa ma resta. E allora sì: meglio un ascensore affollato di imperfezioni, che un attico perfetto dove nessuno suona più il campanello

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L’ascensore: il palcoscenico condominialeImmaginate di tornare a casa dopo una giornata infinita. Il traffico, il capo, la fila al supermercato: l’unica cosa che desiderate è il vostro divano. Premete il tasto dell’ascensore come se fosse il bottone della salvezza. E invece no. Quello che si apre davanti a voi non è semplicemente un mezzo di trasporto verticale: è un portale. Un varco dimensionale. Un viaggio nei drammi, nelle stranezze e nei tic di tutta la comunità condominiale. L’ascensore: pochi metri quadrati dove si concentrano disagio, silenzi imbarazzanti e chiacchiere inutili, in dosi letali. E, ammettiamolo, nessuno sfugge: in quel piccolo spazio siamo tutti uguali. Anziani rumorosi, teenager distratti, genitori trafelati, signore in tuta macchiata di varechina: l’ascensore non guarda in faccia nessuno. Altro che portare ai piani. Qui si viaggia direttamente nelle vite degli altri, senza nemmeno bisogno di chiedere il permesso.

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Quante volte vi siete trovati a fissare il pavimento mentre il vicino vi raccontava della sua caldaia rotta o dell’intervento fallimentare all’anca? Quante conversazioni sul meteo avete sopportato, facendo finta che il “Che caldo oggi!” fosse davvero una notizia sconvolgente? E quante volte avete cercato disperatamente di ricordare il nome del tizio del quinto piano, mentre lui vi salutava come foste amici d’infanzia? Certo, non mancano le scene da commedia nera: il silenzio glaciale in cui l’unico suono è quello dei respiri trattenuti. Gli sguardi che evitano accuratamente il contatto visivo, come se guardarsi significasse firmare un contratto d’amicizia eterna. Ma il meglio viene quando, per qualche scherzo del destino, vi trovate faccia a faccia con il vicino con cui avete litigato per il posto auto. Ascensore che sale, tensione che sale. Un metro quadro di ostilità compressa, condito da sorrisi di plastica e mani nervose. Eppure, nonostante tutte queste tragicommedie quotidiane, vivere in condominio ha il suo strano, perverso fascino.

Perché mentre nella villa isolata regna il silenzio perfetto – il silenzio che amplifica ogni ansia, ogni solitudine – in condominio basta aprire una finestra per sapere che là fuori, o meglio là dentro, c’è un mondo che brulica. Il profumo del sugo dal primo piano, la sigaretta clandestina del terzo, i bambini che urlano dal cortile come se fossero in una giungla: fastidioso? A volte. Ma tremendamente vivo. Meglio un po’ di confusione che un silenzio da film horror. Meglio qualche litigio sulle spese condominiali che una cena consumata nel vuoto siderale della solitudine. Meglio, sì, anche quell’ascensore vetusto che più che portare ai piani, porta a scoprire – volenti o nolenti – l’esistenza degli altri. Un ascensore che, ogni giorno, ci ricorda che, per quanto possiamo provarci, non esiste piano abbastanza alto da isolarci davvero dal resto dell’umanità. Perché l’ascensore, alla fine, non è solo un cubo di metallo che ci porta su o giù. È uno specchio — scomodo, comico, a volte struggente — dell’umanità che ci circonda.

È il luogo dove impariamo che la convivenza è fatta di compromessi silenziosi, sorrisi stiracchiati e parole dette per riempire il vuoto. Ma è anche lì che capiamo, tra un “buonasera” forzato e un bottone premuto con troppa foga, che non siamo poi così soli. Che anche nel disagio, nella goffaggine e nelle piccole tensioni quotidiane, c’è vita. C’è presenza. C’è un’umanità che resiste, che convive, che sbuffa ma resta. E allora sì: meglio un ascensore affollato di imperfezioni, che un attico perfetto dove nessuno suona più il campanello.

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