Stato-mafia, depositate le motivazioni della sentenza in cui l’ex ministro Mannino è stato assolto: “Il suo coinvolgimento appare illogico”
“Non solo non è possibile ribaltare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sentenza di primo grado trasformandola in condanna, ma anzi in questa sede è stata ulteriormente acclarata l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli”. Lo scrivono i giudici della corte d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui il collegio ha assolto l’ex ministro Dc Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato. Oggi sono state pubblicate le motivazioni della sentenza che risale allo scorso 22 luglio. Oltre mille e 100 pagine in cui il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini, spiega perché Mannino è innocente ed illustra la sua “acclarata estraneità” e al contempo riducono in macerie l’intera tesi della trattativa Stato-mafia.
Nella sentenza che smonta la tesi della trattativa Stato-mafia, la Corte d’appello di Palermo gioca proprio sull’impossibilità di sostenere, in fatto e in diritto, l’esistenza di un accordo tra boss e pezzi delle Istituzioni. Un’intesa inconfessabile che secondo le tesi dei pm di Palermo avrebbe coinvolto pure i massimi livelli istituzionali ma che, secondo i giudici che hanno assolto Mannino, non ci fu.
Scrivono i giudici: “non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991”.
“Se davvero, come da contestazione, l’imputato fosse stato così vicino a Cosa Nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé ‘salvifico’, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano. L’ipotesi del suo coinvolgimento nella fattispecie di cui in rubrica non solo, dunque, non è riscontrata, ma si appalesa, ancora una volta, illogica”.
Sono “pacifiche e pubbliche” le minacce subite dal ministro Mannino, si legge nelle motivazioni della sentenza, “il suo timore e l’attivazione di tutte le forze di pubblica sicurezza e di intelligence dello Stato italiano a tutela della sua persona, ivi compreso il Ros e i servizi segreti, cui lo stesso ebbe pure a rivolgersi, ciò non di meno è rimasto parimenti indimostrato che tali contatti, per nulla occulti, fossero finalizzati all’avvio di una trattativa con “cosa nostra”. “La strategia avviata con l’omicidio Lima e certamente proseguita con la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio non era certamente quella finalizzata a ottenere dallo Stato concessioni o a indurlo a trattare”.
Da parte dell’ex Presidente della Camera Luciano Violante, scrivono nelle motivazioni, c’è stato “un inspiegabile silenzio durato troppi anni” su quanto appreso dall’ufficiale del Ros Mario Mori nell’autunno del 1992 sull’intenzione di Vito Ciancimino di avere un colloquio.
Mannino, assolto anche in primo grado, era sotto processo in uno stralcio del procedimento sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’accusa, rappresentata dai sostituti pg Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, aveva chiesto per l’ex ministro la condanna a 9 anni di reclusione.
Numerosi gli attestati di stima e solidarietà a Mannino da parte di politici e semplici cittadini anche attraverso i social per il calvario giudiziario, che dopo tanti anni, finalmente, si è concluso con l’assoluta estraneità dell’imputato a tutte le condotte materiali contestategli.