Una “Turandot” inedita e futuristica per l’inaugurazione della stagione 2019 del Teatro Massimo di Palermo

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Una particolare messa in scena della magnifica Turandot di Giacomo Puccini ha inaugurato la stagione del Teatro Massimo di Palermo. Si è tanto discusso di questo allestimento certamente non tradizionale ma l’impressione che io ne ho ricevuta è stata senza dubbio positiva.

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Diciamo subito che la regia, affidata a Fabio Cherstich, si è avvalsa della collaborazione del gruppo AES+F, un collettivo artistico di nazionalità russa che dal 1987 (in realtà F che sta per Fridkes si è unito ai tre artisti fondatori nel 1995) si esprime con foto, video e tecnologie digitali per rappresentare valori della cultura contemporanea. La novità di questa rappresentazione sta proprio nell’introduzione di immagini visive nel contesto dell’opera, attraverso l’utilizzo di tre grandi schermi, posti sullo sfondo della scena e a volte anche di un quarto che mostra primi piani degli interpreti o dei soggetti raffigurati nel video.

Ci si è chiesto da più parti se queste immagini non distraessero un po’ troppo lo spettatore e se fossero in sintonia o meno col dramma rappresentato e con la musica e il canto. Per rispondere a questo interrogativo penso si debba partire dalla storia che fa da sfondo a questa bellissima opera. La trama di Turandot trae spunto da fiabe orientali del dodicesimo secolo che narrano di una principessa colta ed esperta di magia che rifiuta di avere un marito non alla sua altezza e che per questa ragione sottopone i vari pretendenti a difficili prove. Il nome di Turandot, figlia di Turan, una zona dell’Asia è indicato in una versione francese del 1710 da cui traggono spunto anche Gozzi e Schiller  a cui si rifà Giacomo Puccini. Qui la principessa sottopone i suoi pretendenti a tre indovinelli uccidendo quelli che non indovinano e volendo in questo modo vendicare le violenze subite da un’antenata da parte di uno straniero.

Il principe Calaf, figlio di un re tartaro spodestato da Turandot, si innamora di lei e risponde con successo agli indovinelli. Tuttavia di fronte all’assoluto diniego della principessa di sposarlo, le propone di indovinare il proprio nome promettendo, se non ci fosse riuscita prima dell’alba, di rinunciare a sposarla. Liù, fedele ancella di Timur (il padre di Calaf cacciato dal suo paese da Turandot) naturalmente conosce il nome di Calaf ma, innamorata folle del principe, pur di non rivelarlo, perfino sotto tortura, si uccide. Sarà proprio questa dimostrazione d’amore che scioglierà il cuore di Turandot fino ad allora “di gelo cinta ”e la farà innamorare di Calaf. I temi predominanti di quest’opera che purtroppo rimase incompiuta, e che fu terminata da Franco Alfano sulla base di alcuni appunti del grande compositore, sono l’amore, la violenza e la morte.

Temi certamente presenti in questo allestimento proiettato non più nella Cina di tanto tempo fa ma addirittura nel futuro, in un impero organizzato in un matriarcato cibernetico ove convivono androidi, strumenti di tortura e macchine volanti. A ben vedere si vuole sottolineare l’universalità del messaggio dell’opera perché in una convivenza caratterizzata spesso da violenza, fisica e psicologica, anche nei rapporti interpersonali, solo l’amore può salvare l’umanità e quindi la società.

Dal punto di vista puramente visivo, al di là di una possibile “distrazione” le immagini hanno colori fantastici come per esempio durante la notte insonne e il celeberrimo “nessun dorma” cantato da Calaf. Il cielo stellato e lo sfondo simile al sottofondo marino ben si adattano al sentimento contrastante di Calaf, sospeso fra il dolore per la morte di Liù e la speranza dettata dall’amore per Turandot, culminante col “vincerò” recitato tre volte. I costumi, pure del gruppo russo, tutti molto colorati e non omologati, riproducono le caratteristiche dei personaggi.

Così per esempio la schiava Liù vestita da infermiera accudisce con fedeltà il proprio sovrano cieco e nasconde il suo amore puro per il principe mentre Calaf in tuta mimetica esprime coraggio e spavalderia. Bravi i cantanti ma non sempre esaltanti ad eccezione di Valeria Sepe, intensa e struggente interprete di Liù alla quale il pubblico ha riservato gli applausi più fragorosi. Efficace e trascinante la direzione d’orchestra di Gabriele Ferro. Il coro, costretto dalla presenza degli schermi e delle immagini a mantenere una posizione eccessivamente statica, dimostra di essere sempre all’altezza della situazione. Infine una speciale menzione va fatta al meraviglioso coro delle voci bianche diretto dal maestro Punturo, qui sottoposto a un’autentica prova del nove.

2 thoughts on “Una “Turandot” inedita e futuristica per l’inaugurazione della stagione 2019 del Teatro Massimo di Palermo

  1. Commento analitico, equilibrato e convincente. Complimenti per lo stile della recensione.

  2. Peccato non aver visto uno spettacolo così interessante! La tua interpretazione è suggestiva e convincente, un piacere leggere questa recensione!

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