23 maggio: il dolore e la memoria
Chiunque abbia almeno quarant’anni non può non ricordare dove si trovava e che cosa stava facendo ventisei anni fa: sabato 23 maggio 1992. Io mi trovavo a casa con alcuni miei amici con i quali avevo frequentato la scuola di preparazione per il concorso in magistratura. Ero rientrato da Roma la sera prima, venerdì 22 maggio 1992, avevo affidato il mio sogni di diventare magistrato ai componenti della commissione di concorso del maggio ’92, tra i quali, appresi il giorno dopo, il 23 maggio, c’era un magistrato di Palermo: Francesca Morvillo.
Avevo sognato per anni di diventare magistrato, da siciliano avevo un debito di gratitudine e un desiderio di emulazione nei confronti di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di tutti quei colleghi che avevano sacrificato la qualità delle loro vite per provare a cambiare una terra che per secoli era stata feudo di “cosa nostra”.
Per questo dopo la laurea trascorsi due anni sui banchi della scuola di magistratura e sui libri di diritto penale, civile e amministrativo a studiare per raggiungere il mio sogno: emulare i miei eroi, provare a svuotare con un cucchiaino una spiaggia, provare ad affrontare il fenomeno mafioso lavorando, comprendendone le origini, e combattendolo, come aveva insegnato Giovanni Falcone, con l’unica arma della quale dispone un magistrato: i codici. Quel sabato 23 maggio 1992 con i miei amici della scuola di magistratura stavamo commentano gli elaborati del giorno prima, ai quali avevamo affidato le speranze di diventare magistrati. La notizia della strage di Capaci ci piombò addosso come un masso enorme. Ci guardammo in faccia increduli, piangemmo.
In città era un continuo frastuono di sirene dirette all’autostrada per l’aeroporto. Quell’autostrada che appena ventiquattrore prima avevo percorso pieno di entusiasmo tornando da Roma, era diventata un incubo, il teatro di una strage che aveva annientato la speranza, aveva ucciso un uomo che aveva dedicato la sua vita al lavoro e alla sua terra, aveva annientato una donna che lo amava, aveva annientato, Rocco Dicillo, Antonino Montinari e Vito Schifani, tre poliziotti che avevano dato la vita per proteggere Giovanni Falcone.
Io e i miei amici della scuola di magistratura non riuscimmo a trattenere le lacrime, ma dopo qualche giorno, ai funerali di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonino Montinari e Vito Schifani, alle lacrime si unì un’incontenibile rabbia, per la consapevolezza che si stava facendo strada l’idea che quella strage avrebbe potuto essere evitata.
Quando dopo due anni iniziai la mia carriera di magistrato scelsi di fare il pubblico ministero proprio alla Procura della Repubblica di Palermo, proprio in quelle stanze che erano state occupate da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il mio “capo” era un magistrato di grande carisma: “Gian Carlo Caselli”.
Lavorare in Procura mi riempiva di orgoglio e mi consentiva anche di comprendere quello che era successo nei mesi che avevano preceduto le stragi, quello che avevo visto dal di fuori del “palazzo dei veleni”. Anche fuori dal palazzo era stato comprensibile l’isolamento che aveva avvolto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La carriera del primo era stata più volte sorprendentemente ostacolata da inspiegabili accadimenti: gli fu negato di dirigere l’ufficio istruzione e quando fu oggetto di un attentato miracolosamente sventato presso la sua villa estiva, a Palermo si insinuò persino il sospetto che si fosse trattato di una “messa in scena”.
I colleghi che conobbi nel mio primo anno di servizio in magistratura chiesi di raccontarmi degli ultimi anni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e la risposta di un collega mi chiarì le cose: “Nicola, oggi ti sembrano tutti loro amici, ma poco prima delle stragi tanti colleghi negavano persino il saluto a Giovanni e Paolo”… era proprio così…
Dopo le stragi qualcosa sembrava che stesse cambiando: il Parlamento promulgò la legge che consentiva di agire sui patrimoni mafiosi, affrontando il fenomeno mafioso colpendo il suo tallone d’Achille quella smisurata ricchezza accumulata negli anni con mani sporche di sangue. Anche di questo ebbi presto contezza nel mio lavoro: in un’udienza alla sezione misure di prevenzione il collega che con me aveva preparato l’udienza aveva avuto cura di avvertirmi: “a queste bestie interessa molto di più il loro patrimonio che la libertà. In cella stanno anche bene, ma se riesci a toccare il patrimonio che hanno accumulato con il loro percorso criminale gli fai male”.
Anche fuori dal “Palazzo dei veleni” sembrava respirarsi un’aria nuova: la rassegnazione dei siciliani aveva lasciato spazio a un moto di rivendicazione: si sentiva il desiderio di affrancarsi e di affrancare la nostra terra dal sopruso mafioso: lenzuola bianche sui muri scrivevano di un popolo che voleva consentire a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino di “camminare con le nostre gambe”. Dentro il Palazzo finalmente sembrava che i dissidi interni fossero stati messi da parte in nome di una seria lotta alla mafia. Si lavorava bene e si avvertiva la fiducia dei palermitani nella magistratura, nessuno di noi si sentiva più solo.
Sono trascorsi ventisei anni: sembra che sia cambiato tutto: sono davvero pochi coloro che ancora stanno dalla parte dei magistrati, molti coloro che coltivano la quotidiana delegittimazione della magistratura e dei magistrati. Non passa un giorno senza che un quotidiano o un blog non contenga un attacco nei confronti di questo o quel magistrato. I magistrati sono di nuovo tornati ad essere visti come nemici.
Diversi esponenti politici praticano quello che sembra essere diventato lo sport preferito da molti: il linciaggio mediatico delle toghe. Si annunciano demolizioni mediatiche dei magistrati. I magistrati vengono descritti come burocrati invaghiti di un insano desiderio di protagonismo in nome del quale sacrificano innocenti vittime di persecuzioni giudiziarie. No, non è esattamente così: certo qualcuno ha sbagliato, anche qualche magistrato.
Qualcuno ha indossato e poi lasciato la toga per vocazione politiche, qualcun altro ha proprio sbagliato: ha indossato il ruolo del personaggio antimafia, strumentalizzato a esclusivo uso personale tale ruolo.
Ma la stragrande maggioranza dei magistrati ha continuato a lavorare, in silenzio, nel tentativo di rendere ai siciliani una terra libera dall’oppressione mafiosa. Ma oggi che fa questo lavoro e lo fa seriamente è solo.
Ho letto in settimana dei cittadini di un quartiere palermitano che quest’anno rifiutano di commemorare Giovanni Falcone. Purtroppo non mi sorprende. Sono lontanissimi i tempi della Palermo che stava vicina ai magistrati e questi anni tornano ad assomigliare in modo sempre più angosciante al 1992. E se così è, mi sento di potere chiedere a chi veramente ha a cuore le sorti della Sicilia: non lasciate soli coloro che provano, senza clamori mediatici, a migliorarla, poiché come lessi qualche anno fa su un libro: “questa terra un giorno vi sembrerà meravigliosa”.