L’etica e la politica di Piersanti Mattarella

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Il 6 gennaio del 1980, ero un ragazzo, che come diceva Morandi amava i Beatles, era ora di pranzo.
I dolci della pasticceria Ragno erano in tavola. Nelle strade la pigrizia dei giorni di festa. All’improvviso, nel silenzio i colpi. Capodanno era passato, non potevano essere botti. Mio padre va affacciarsi al terrazzo di via Federico Pipitone, noi figli lo seguiamo. In fondo alla strada l’agguato. Mio padre, che frequentava quel posto, fonte di speranza per noi Siciliani, capisce tutto. Hanno ammazzato il Presidente, il migliore di tutti noi.

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La Sicilia non si è più ripresa da allora. Ha perso il filo di Arianna che l’avrebbe tirata fuori dal labirinto del Minotauro. Un mostro bivalente, metà povertà, metà mafia. Non possono coesistere l’una senza l’altra, in un circolo vizioso e ripetitivo.

Piersanti Mattarella l’aveva capito bene e meglio di tanti. Ed aveva capito bene che per annientare la seconda, la mafia, doveva sconfiggere la povertà. Le sue carte in regola servivano a convincere lo Stato, ma anche la connivente società siciliana, ad investire sapientemente in Sicilia fondi, ma anche risorse umane e politiche.
Quel giorno capii la mia appartenenza. Oggi di fronte a quell’agguato c’è una targa e un marciapiede orrendamente dissestato. Signor Sindaco le chiedo, per un vecchio sentimento di appartenenza a quella Storia, rifaccia il marciapiede. Non può rimanere in queste condizioni di degrado. Simboleggia il degrado di una Storia che appartiene a tutti noi. Lui non voleva il dissesto ma la Rinascita.

Giovanni Pizzo

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