“La mano felice” e “Il Castello del principe Barbablù” uniti dal destino di solitudine dell’uomo

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Tra il Rigoletto di Verdi e la Boheme di Puccini, che sarà rappresentata il mese prossimo, è andato in scena al teatro Massimo di Palermo uno spettacolo con due piccole opere raramente allestite e che ho trovato davvero interessanti.

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Si tratta di “La mano felice” di Arnold Schonberg e Il Castello del principe Barbablù di Bela Bartok, due drammi che Gianni Forte e il regista Stefano Ricci hanno voluto mettere insieme in un unico progetto e che sono state precedute da un breve quadro con musica di Schonberg, pensato per rappresentare una scena cinematografica. Il filo conduttore di queste opere (due atti unici) sembra essere il destino di solitudine dell’uomo durante la propria vita ed entrambi sono stati composti da due autori diversi ma negli stessi anni precedenti la prima guerra mondiale nelle due capitali asburgiche: Vienna e Budapest.

La musica di Schonberg che introduce le due opere è stata composta nel 1930 per una scena di un film da lui solo immaginata ma ben si presta ad evidenziare il tema che sarà presente nelle due opere successive, essenzialmente incentrato sul fallimento del rapporto fra uomo e donna con  l’inesorabile solitudine che segue. In particolare, con tale musica, si sottolineano i momenti che portano all’annientamento dell’uomo, dal pericolo all’angoscia e infine alla catastrofe, sostenuti da un tristissimo bellissimo  adagio.

Ne  La mano felice Schonberg   dà voce solo a un personaggio, un uomo che, dopo essersi illuso d’avere conquistato l’amore di una donna e avere per questo alzato la mano illuminata e felice, rimarrà da solo. Questa disperata solitudine è rappresentata da una roccia che gli si pone davanti dopo le suppliche rivolte all’amata che se ne va con un signore. L’opera di Bartok è preceduta da una lectio magistralis recitata che fa da collante fra le due opere pensate dagli ideatori Gianni Forte e Stefano Ricci come un unico percorso emotivo.

Nell’opera di Bartok assistiamo ad una rivisitazione della celebre fiaba di Perrault del 1697 ove volutamente non emerge l’efferatezza dell’uomo crudele che uccideva le proprie mogli dopo averle illuse e sposate. Nell’opera del musicista ungherese si vuole dar risalto al fallimento di un rapporto d’amore, attraverso un crescendo di emozioni, evidenziate dalla musica che si rivela straordinariamente incisiva nei momenti più drammatici del dialogo fra Barbablù e Judith. Quest’ultima è spinta dall’amore e dalla curiosità ad aprire le sette porte dietro le quali vedrà solo sangue e orrore e che testimoniano l’impossibilità di mantenere un rapporto duraturo fra un uomo e una donna. Il finale è volutamente aperto perché ciò che interessa a Bartok è evidenziare la crisi del rapporto amoroso attraverso un viaggio nell’anima dei protagonisti.

Judith, impazzita di gelosia, vuole aprire l’ultima porta e qui vi trova le tre mogli precedenti di Barbablù che rappresentano l’aurora, il mezzogiorno e il crepuscolo. Lei rappresenta la mezzanotte e Barbablù, dopo averle messo addosso il mantello e i gioielli come alle altre, chiuderà la porta con le quattro donne rimanendo solo e angosciato nell’oscurità.

La direzione d’orchestra di Gregory Vajda è stata impeccabile, bravi i cantanti e gli attori. Belle le scene, le luci e i costumi. Una menzione particolare va fatta ai performers che hanno riempito la scena con figure particolarmente suggestive come quella delle donne con i lunghi capelli intrisi nella bacinella dell’acqua e liberati improvvisamente in aria, in segno di quella libertà difficile da raggiungere nel rapporto di coppia.

 

5 thoughts on ““La mano felice” e “Il Castello del principe Barbablù” uniti dal destino di solitudine dell’uomo

  1. Devo fare i complimenti alla Sig.ra Romano per l’articolo sopra letto sia per magistrale scrittura sia per la cpmpletezza della storia.

  2. “La mano felice” è la sua dottoressa Romano, che sa descrivere le atmosfere dell’opera come pochi altri.

  3. Grande Delia mi hai fatto venire voglia di andare a vedere questo spettacolo. Il teatro Massimo dovrebbe offrirti un incarico nel suo staff di comunicazione ma sono sicuro che prima dovrebbe superare l’offerta fatta dal tuo editore.
    continua a scrivere leggo con piacere i tuoi articoli

  4. Ancora una volta la tua recensione permette, per così dire, una visione a distanza a chi purtroppo non ha potuto assistere alla messa in scena di queste due ‘perle’. A me, in particolare, ha risvegliato il lontano ricordo di uno splendido “Castello di Barbablu” a Palermo, ma prima della riapertura del Teatro Massimo, dunque parliamo di fine anni ’80 o primi anni ’90… “La mano felice” non l’ho mai vista né ascoltata, ma data la grandezza di Schönberg non esito a credere che si tratti di quel piccolo capolavoro di cui sei riuscita a trasmettere l’idea.

  5. Faccio interamente mio il commento di Elisa, e aggiungo che il tuo stile nitido ed essenziale si coniuga altrettanto bene con la musica lirica che con il calcio

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