Il delitto di diffamazione a mezzo stampa e l’uso dei network
Il delitto di diffamazione a mezzo della stampa è regolato dall’art. 495 del codice penale che sanziona penalmente la condotta di colui il quale “fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”.
Il riferimento ai casi indicati nell’art. 494 ha ad oggetto il caso di colui il quale offenda l’onore o il decoro di una persona presente. Questa condotta, dunque, che si distingue dalla diffamazione per l’assenza della persona ingiuriata, integra quello che fino a qualche anno fa costituiva il reato di ingiuria e che oggi è stato depenalizzato.
La diffamazione, in assenza di circostanze aggravanti è punita con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro.
La prima circostanza aggravante consiste nell’attribuzione di un fatto determinato: si pensi al caso in cui comunicando con più persone si diffami una persona affermando che la stessa strumentalizza la propria posizione lavorativa al fine di molestare le lavoratrici a lui sottoposte.
In questo caso, trattandosi dell’attribuzione di un fatto determinato di contenuto diffamatorio, opera la circostanza aggravante prevista dal secondo comma dell’art. 595 codice penale e la pena per il diffamatore è della reclusione fino a due anni o della multa fino a 2.065 euro.
L’ulteriore circostanza aggravante che può trovare (e trova frequente applicazione nella prassi applicativa) è quella al mezzo con il quale si consuma la condotta diffamatoria: se la stessa si consuma a mezzo della stampa o di altro mezzo dio pubblicità, la pena per il diffamatore è quella della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Sembrerebbe, dunque, che in tutti i casi di diffamazione, compresi quelli aggravati, l’autore del reato possa cavarsela con il pagamento di una sanzione penale pecuniaria (peraltro con il beneficio della sospensione condizionale della pena, tenuto conto che statisticamente, la maggior parte di coloro che consumano questo reato sono incensurati).
In realtà non è così, poiché l’art. 13 della legge nr. 47 del 1948 prevede, per la diffamazione a mezzo della stampa che qualora il fatto diffamatorio consista nell’attribuzione di un fatto determinato e al tempo stesso sia commesso con il mezzo della stampa l’autore del reato debba essere punti con la reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 258,00 euro.
In questo caso, dunque, il diffamatore, se giudicato colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, andrà incontro a una pena detentiva la cui “forbice” edittale appare particolarmente severa.
Le questioni più dibattute che sono state affrontate in teme di delitto di diffamazione riguardano la necessità di trovare un punto di equilibrio tra i diritti di manifestazione del pensiero e di critica giornalistica, costituzionalmente riconosciuti, e il diritto alla reputazione del soggetto asseritamente diffamato.
La giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass.Sez. 5, Sentenza n. 42755 del 17/05/2016) ha affermato che “In tema di diffamazione tramite intervista televisiva diffusa successivamente su rete internet, sussiste la responsabilità penale del giornalista che non manifesti distacco dalle affermazioni dell’intervistato che risultino prive di verosimiglianza e tali da indurre discredito sulla persona offesa. (Nella specie, in cui l’intervistato aveva dichiarato che, per ottenere un mutuo quale vittima di estorsione, aveva dovuto versare denaro al rappresentante di un’associazione proprio a tutela delle vittime di estorsione ed usura, la Corte ha disatteso l’argomento difensivo secondo cui si trattava di intervista “in diretta” con impossibilità di intervenire, precisando, peraltro, che tale responsabilità non sarebbe stata esclusa neppure in quest’ultimo caso, in quanto il giornalista sarebbe stato comunque tenuto ad intervenire con richieste di chiarimenti e precisazioni, dopo essersi reso conto della offensività delle dichiarazioni).
Seguendo questo indirizzo interpretativo (ed è bene precisare che i giudici di merito sono tenuti a seguire i principi di diritto affermati dalla Corte di Cassazione a meno di non volere accettare il rischio che le proprie sentenze vengano censurate in punto di diritto) deve ritenersi che il giornalista televisivo che nel corso di un intervista televisiva trasmessa in diretta percepisca una espressione di contenuto diffamatorio della persona intervistata, sia tenuto a dissociarsi dalla suddetta espressione diffamatoria e a precisare in tempo reale che la stessa è soggettivamente riferibile in via esclusiva al solo soggetto che la ha resa.
L’individuazione del limite tra legittimo diritto di cronaca e diffamazione va individuata nel rispetto dei criteri della verità storica, interesse pubblico a conoscere l’informazione resa pubblica e continenza della forma espositiva.
Il giornalista che voglia legittimamente invocare la scriminante del diritto di cronaca dovrà, dunque, in primo luogo dimostrare di avere narrato di un fatto vero, senza averne alterato la dinamica fattuale.
Va ricordato in proposito che sul cronista incombe anche un obbligo di controllo dell’attendibilità della fonte dalla quale ha tratto la notizia.
Quanto all’interesse pubblico a conoscere l’informazione potenzialmente diffamatoria, deve rilevarsi che il problema si presenta particolarmente complesso e investe il dibattito, quanto mai attuale della divulgazione delle notizie apprese nel corso delle indagini preliminari attraverso l’attività di intercettazione telefonica e ambientale.
Nel nostro Paese è stata ripetutamente invocata la riforma della disciplina delle intercettazioni, poiché attraverso la pubblicazione del contenuto delle stesse sugli organi di stampa si è ritenuto che fosse stato del tutto prevaricato il diritto alla riservatezza, non solo di coloro che sono sottoposti ad indagini e intercettati per tale ragione, ma anche di coloro che inconsapevolmente e senza alcuna colpa si trovano a conversare con i primi.
Per essere più chiari: si pensi ad una indagine nei confronti di un esponente politico per il reato di corruzione. Il giudice autorizza l’attività di intercettazione delle utenze telefoniche in uso al politico e magari l’intercettazione ambientale dei luoghi da quest’ultimo frequentati.
La conseguenza sarà che all’esito delle indagini preliminari l’autorità giudiziaria si troverà in possesso di una infinità di dati riservati, una minima parte dei quali attinenti all’attività delittuosa dell’indagato e una enorme quantità relativa a vicende della sua vita privata che coinvolgono evidentemente tutti coloro che sono entrati in contatto con l’indagato.
A mio avviso deve ritenersi sussistente, a carico del magistrato che dispone di quei dati , un inderogabile dovere di non diffondere quella parte di segmenti conoscitivi che nulla hanno a che fare con la colpevolezza o meno dell’indagato, ma che riguardano la sua vita privata.
Per essere più chiari: esiste nel nostro codice penale una norma (art. 326 c.p.) che punisce il pubblico ufficiale (dunque anche il funzionario di polizia o il magistrato) che riveli notizie d’ufficio che debbano rimanere segrete.
Il problema è che già al momento in cui venga notificato all’indagato un semplice avviso di garanzia (ma anche quando venga eseguita una perquisizione o un sequestro a suo carico e tanto più se il soggetto venga arrestato) le notizie relative a quella indagine non sono più coperte dal segreto e dunque la diffusione delle stesse non costituisce più reato.
Non si potrà quindi perseguire quindi il funzionario di polizia o il magistrato e di conseguenza il cronista che riveli notizie dell’indagine acquisite attraverso le intercettazioni se dette notizie non sono più coperte dal segreto in quanto rese conoscibili all’indagato stesso.
Orbene, a mio avviso è proprio a questo punto che andrebbe valutata, almeno sotto il profilo deontologico, la condotta di chi diffonde notizie apprese nel corso delle indagini: se tali notizie sono strumentali alla dimostrazione di colpevolezza dell’imputato, non si potrà certo impedire al pubblico ministero di renderle pubbliche attraverso un pubblico dibattimento, ma se tali notizie attengono alla vita privata del cittadino e sono state incidentalmente captate attraverso l’attività di captazione telefonica o ambientale, le stesse devono rimanere segrete.
In definitiva: il cittadino ha diritto ad essere informato del dato di cronaca, ha diritto a sapere se il politico ha corrotto taluno, ma non ha diritto di sapere altre questioni relative alla vita privata di quel politico, né tanto meno di terzi soggetti inconsapevoli di essere stati intercettati mentre conversavano con l’indagato.
Ultimo presupposto necessario al fine di scriminare la condotta “diffamatoria del giornalista” è quello della “continenza”.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che “In tema di diffamazione, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione e legati ad un “botta e risposta” giornalistico che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione”.
Sarà quindi dovere del cronista quello di riportare la notizia, benché la stessa disponga di un contenuto potenzialmente diffamatorio, con un linguaggio critico, ma non gratuitamente infamante.
Il dibattito sul tema del delitto di diffamazione si è arricchito di infiniti spunti di riflessione negli ultimi decenni a causa dell’utilizzo della cosiddetta “informazione virtuale”.
La questione è particolarmente delicata in quanto la quasi totalità delle persone comprese tra diciotto e sessanta anni utilizza un computer, un tablet o uno smartphone per collegarsi alla rete internet e la stragrande maggioranza di costoro accede a social network quali facebook.
Ebbene, ogni pubblicazione su un network quale facebook, che offenda l’altrui reputazione, integra il delitto di diffamazione a mezzo stampa e dunque con le aggravanti previste dal secondo comma dell’art. 595 c.p.
La Corte di Cassazione ha avuto già modo di affrontare il tema della diffamazione virtuale già da diversi anni. I giudici di legittimità hanno affermato, ad esempio che “ integra il reato di diffamazione la condivisione sulla rete internet di filmati riproducenti scene di atti sessuali, descritti come riferiti alla persona offesa, mediante il programma informatico di condivisione “peer to peer”, dotato di potenzialità diffusiva e idoneo a propagare i contenuti dei files video ad un numero indeterminato di destinatari, a partire dalla prima condivisione.
Sempre in tema di reati di diffamazione via internet, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che l’invio di e-mail a contenuto diffamatorio, realizzato tramite l’utilizzo di internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata e l’eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive, non consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria.
Infine, i Giudici di legittimità, hanno affermato che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico.
La lettura di questi arresti giurisprudenziali rende evidente quanto delicato sia il problema dell’utilizzo dei network, specie se gli stessi si trovano in mani di giovani inesperti che, sottovalutando le conseguenze penali del loro operato, a causa di un uso non corretto del mezzo telematico potranno trovarsi in un’aula di tribunale a rispondere del delitto di diffamazione.