Alla riscoperta del Kenya sotto il profilo archeologico, subacqueo e storico

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La pioggia scrosciante batte violentemente sulla carlinga del piccolo Bombardier che atterra saltellando sulla pista dell’aeroporto di Malindi. Scendendo dal velivolo, l’assordante rumore dei motori e delle eliche mantenuti in moto per ripartire immediatamente alla volta di Lamu, si confonde con quello della pioggia battente che ci accoglie avvolgendoci in una sorta di abbraccio umido e caldo. Malindi si presenta in tutta la sua decadente fascinazione aggredita da una natura che, come in tutto il Kenya, si presenta vitale, prorompente e dalle infinite affascinanti versioni vegetali, geologiche e animali.

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Ad un storico e archeologo Malindi evoca subito immagini di avventurosi viaggi per mare che la collegarono con l’India e l’Estremo Oriente, ma anche con l’Africa settentrionale attraverso il Corno d’Africa e il Mar Rosso e con il Golfo Persico, l’Arabia e la Persia. Quasi certamente anche prima, in epoca romana,  alcune navi giunsero fin qui per caricare pregiati prodotti esotici. Del resto è noto che i prodotti romani giunsero più a Est,  sulla costa sud-orientale dell’India, ad Arikamedu, a breve distanza dall’attuale città di Pondicherry. Gli scavi di Wheeler e Casal e, più recentemente, di Begley hanno inequivocabilmente identificato il sito archeologico come sede dello scalo commerciale di Poduke, attivo dal II sec.a.C. fino all’VIII sec. d.C., dove giungevano ceramiche provenienti dall’Italia.

Ci vengono subito in mente le preziose notazioni di uno dei più antichi documenti riguardanti i viaggi per mare in queste terre lontane: il Periplo del Mare Eritreo scritto da un anonimo nel I secolo d.C. In questo eccezionale documento, la cui trascrizione è conservata ad Heidelberg, compaiono i nomi di tutta una serie di località che costituivano gli scali costieri lungo il Mar Rosso e la rotta per l’India. Menziona anche località che si trovavano sul mare orientale dell’Africa subsahariana corrispondente alle attuali coste della Somalia, Kenya e Tanzania.

Che i Romani si fossero spinti più a Sud lungo la costa orientale dell’Africa, attratti dalla presenza di prodotti esotici di pregio, come avorio, tartaruga, corallo e schiavi, sarebbe oggi provato dal ritrovamento da parte dell’archeologo Felix Chami di oggetti di provenienza romana sulla foce del fiume Rufiji e sull’antistante isole di Mafia, in Tanzania. Tali scoperte lo hanno indotto a pensare che l’antico porto di Rhapta, menzionato nel Periplo, si trovasse proprio in questa zona, poco a Sud di Dar es Salaam e nei pressi di Menuthias, identificata probabilmente con l’isola di Zanzibar. Anche il geografo Tolomeo, un secolo dopo il Periplo, descriverà questi luoghi menzionando le medesime località nella terra dell’antico regno di Azania.

Erano questi i pensieri che mi scorrevano veloci nella mente attraversando Malindi brulicante di una variopinta umanità in continuo movimento tra alberi maestosi e architetture arabeggianti e coloniali. Ma la quasi automatica tendenza a ritornare ai pensieri della storia e dei collegamenti con l’Occidente mediterraneo erano stimolati, a Malindi, dalla spumeggiante, e a volte pittoresca, presenza italiana che ne ha fatto una meta preferita dai nostri connazionali ormai da molti decenni. Attraversando la città numerose sono le insegne che, nella lingua di Dante, propagandano pizze e cibo italiano, ma anche soggiorni in resort sul mare e, addirittura, sartorie dove in tempo record ti puoi vestire seguendo i dettami della moda nostrana.

Mi domandavo: che ci sia un richiamo atavico tra il Bel Paese e questa piccola città nel cuore dell’Africa equatoriale? Chissà. E’ certo che da qui transitarono per secoli le rotte che collegavano l’Europa all’India e all’Estremo Oriente, intensificatesi soprattutto dopo l’epico approdo di Vasco da Gama nel 1498 proprio sulla costa di Malindi dove una colonna bianca ne conserva il ricordo.

C’era un legame tra queste considerazioni e il motivo per cui ero a Malindi? L’intento della missione che stavo guidando, voluta dalla nostra ambasciata a Nairobi, era quello di trovare in questo mare tracce di antichi relitti sia per scopo puramente scientifico, sia per sondare le possibilità di esportare quello che abbiamo fatto in Sicilia nel campo della gestione del patrimonio archeologico e storico subacqueo anche in questo paese partendo dalla considerazione che il futuro del turismo passerà per una sua rivalutazione in chiave culturale. In altre parole l’idea è quella di realizzare nel mare tropicale del Kenya, in prossimità di Malindi, parchi archeologici subacquei per contribuire a invertire una tendenza che da qualche anno ha messo in crisi questo affascinante luogo della costa kenyota. Il turismo basato sulle belle spiagge e sul richiamo dell’esotico sta morendo. Un indicatore in tal senso è costituito dalla notizia che Briatore abbia messo in vendita il suo lussuosissimo resort di Malindi per mancanza di clienti.

Perché scegliere Malindi come luogo ove espletare le nostre ricerche? E’ evidente che per il nostro Paese questo luogo è importante sia perché da decenni attrae investimenti italiani nel settore turistico, ma anche perché è qui che dal 1966 si trova il Centro Spaziale intitolato al suo fondatore Luigi Broglio gestito dall’Agenzia Spaziale Italiana. Inoltre, dal punto di vista storico, è da secoli tra i luoghi più importanti per il transito delle rotte commerciali che ci riportano al Mediterraneo. Pertanto è qui che dovrebbero trovarsi numerose tracce in mare di questi passaggi sotto forma di relitti.

Ed in effetti i risultati delle nostre esplorazioni effettuate nel mare di Ngomeini, poco a Nord di Malindi, tra il 3 e il 9 novembre, hanno confermato le nostre aspettative. La missione è stata sostenuta dall’Istituto Italiano di Cultura di Nairobi / Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale nell’ambito di un progetto già avviato nel 2016 con l’obiettivo di individuare l’esistenza dei pre-requisiti per una riqualificazione in senso culturale del turismo sulla costa del Kenya, e di promuovere nello stesso tempo in questo Paese l’eccellenza italiana nel settore dell’archeologia.

La località di Ngomeni Bay, individuata nel corso di una precedente missione in Kenya del sottoscritto (marzo 2016) si prestava all’avvio delle nostre ricerche poiché era una zona di approdo che presentava e presenta fattori di rischio dovuti alle turbolenze marine che si creano presso l’ingresso della baia e ai bassi ed insidiosi fondali costituiti da dune sabbiose sommerse in continuo movimento. Il gruppo di lavoro, guidato da chi scrive e da Caesar Bita del Museo Nazionale di Malindi, era composto da Claudio Di Franco, operatore archeologo subacqueo della Soprintendenza del Mare e da Fabio Iorio, operatore esperto nell’uso del Side Scan Sonar (Sonar a Scansione Laterale).

Date le condizioni meteomarine avverse dovute alle abbondanti piogge dei giorni precedenti l’arrivo della missione, le immersioni sono state ridotte al minimo per la visibilità estremamente scarsa dell’acqua. Le maree entranti e uscenti nella Baia di Ngomeini, infatti, con le conseguenti forti correnti che spostano grandi quantità di fango, hanno reso le acque della baia estremamente torbide. Pertanto si è molto lavorato scandagliando i fondali mediante il Side Scan Sonar.

Grazie al sapiente uso di questo strumento abbiamo identificato l’esatta localizzazione di un relitto già noto e parzialmente scavato anni fa a circa 6/7 metri di profondità. Secondo una prima analisi dei reperti a suo tempo recuperati il relitto apparterrebbe ad una nave commerciale lunga circa 40 metri, probabilmente portoghese, databile intorno al XVI secolo, da cui sono state recuperate ceramiche persiane e provenienti dall’Estremo Oriente, ma anche avorio in forma di zanne di elefante e lingotti rame di forma sferica.

Ma la scoperta più rilevante è stata l’identificazione di un altro relitto e di altre tre anomalie registrate dal sonar che lo potrebbero essere. Le spesse formazioni coralligene che ricoprono i resti dei relitti ne inibiscono la loro esatta identificazione. Tuttavia il relitto certamente identificato ha già rivelato la presenza di ceramiche e di 17 macine a disco in pietra con foro centrale.

L’area si conferma, quindi, essere estremamente importante sotto il profilo archeologico subacqueo e, conseguentemente, storico. Successive campagne di scavo e ricognizione saranno necessarie per dettagliare le nostre conoscenze su quest’area dove probabilmente i Portoghesi e forse ancor prima Arabi, Persiani e Romani, venivano a caricare avorio procurato dalle bellicose tribù che un tempo vivevano all’interno.

La bassa profondità, la vicinanza alla costa e a Malindi e la presenza di un territorio di grande interesse naturalistico e paesaggistico costituiscono i prerequisiti ottimali per realizzare in questa baia un grande parco archeologico sommerso visitabile che contribuirebbe non poco ad arricchire il già presente turismo naturalistico e balneare qualificandolo anche culturalmente in linea con una tendenza mondiale ormai acclarata.

Novembre 2017

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