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"I masnadieri dell’Acquasanta". Il nuovo romanzo di Antonio Fiasconaro

Dal giallo poliziesco “Morte d’autore a Palermo” (2013 – Premio Letterario Internazionale “Pietro Mignosi” per la saggistica 2015) che indagava sulla scomparsa dello scrittore francese Raymond Roussel avvenuta nel 1933, ad un romanzo ambientato nella Sicilia post unitaria. Il giornalista e scrittore Castelbuonese Antonio Fiasconaro si ripropone con la sua ultima fatica letteraria “I Masnadieri dell’Acquasanta” (Nuova Ipsa Editore) storia di sangue, agguati e rapimenti, nella Sicilia post unitaria stretta nella morsa malavitosa, che trovano conclusione in una Palermo sonnolente e contraddittoria. Il romanzo, presentato il 28 aprile scorso a Villa Magnisi, su cui si articola l’emblematica storia di sangue dilatata dalle griglie delle logiche mafiose della città fin nell’entroterra di Milocca. Mostra un’attenzione particolare per il territorio e per la toponomastica che richiama le planimetrie civiche della Palermo secentesca raccontate da Luigi Natoli, si dipanano le linee di un plot narrativo avvincente e, allo stesso tempo, sapientemente non edulcorato da quei retorici umori che furono propri del feuilleton d’annata, per altro sdoganato dall’attenzione estetica di Umberto Eco, e che ha avuto ancora i segni precisi di una accurata analisi narratologica attraverso la perizia letteraria di Leonardo Sciascia.



Una vicenda avviata dal giovane Luigi Attanasio, falegname di mestiere, il quale, lancia in resta, decide di rapire la sua Clementina, figlia di un villano Vincenzo Mangiaracina. Cacciato in malo modo, tanto da far intervenire la pubblica forza, si dà la stura, – il tutto documentato dal mattinale e accurato bollettino dei Carabinieri Reali, – a rapimenti, sgozzamenti, agguati disegnando, nel cerchio dei quindici capitoli, quel reticolo luttuoso di bande le quali, in opposti ambienti, agiscono affinché i “fatti” trovino il loro adeguato e “onorevole” compimento. Sono questi gli umori di fondo del romanzo di Fiasconaro, il quale ci restituisce, nella sua già nota scrittura agile quanto vivida, la misura del linguaggio siciliano e della psicologia isolana.



Umori e cromatismi d’una Sicilia sottoposta al giogo delle violente logiche feudali, e di una criminalità che inizia a concretarsi in quelle gerarchie di facinorosi che, ad oggi, sono ancora tristi marchi d’una città non redimibile. Sarà in un lontano venerdì del 21 aprile dell’anno 1893, che le azioni delittuose troveranno conclusione in Palermo. E ciò presso le severe stanze del Tribunale penale posto nello spazio di Palazzo Chiaramonte, il trecentesco Steri, sede, un tempo, della Santa Inquisizione. Così verrà chiuso il processo contro sequestratori e grassatori; scene del delitto: Milocca, territorio di Apollonia in Val Demone, e la felicissima Palermo percorsa, tra lo sciabordio delle acque, dai penetranti odori degli aranceti della Conca d’Oro. In sintesi, un “viaggio”, tra lingua e psicologia siciliana, dell’ “artigiano del giornalismo” come lo stesso Fiasconaro ama definirsi, da condividere, senza alcun indugio, attraverso la lettura del romanzo.






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