Palermo è stata nei secoli una città multietnica, tanti furono i conquistatori: fenici, greci, arabi, normanni e spagnoli. Ciascuna popolazione ha lasciato segni importanti che ritroviamo nella tradizione, nell’arte e nella cultura isolana. Per quanto riguarda gli ebrei, invece, ricordiamo che arrivarono in Sicilia non come conquistatori ma potremmo dire come dei rifugiati. A seguito della diaspora nel 70 d.C., un folto gruppo di ebrei cacciati da Gerusalemme arrivarono in Sicilia.
La comunità ebraica in epoca romana, fu una delle comunità più consistenti. Gli ebrei rimasero in Sicilia fino al 1492, quando Re Ferdinando “il cattolico” li scacciò da tutti i territori sottoposti al dominio spagnolo. Della loro esistenza si ha notizia sin da quando, nel 590, il papa Gregorio Magno ordinò alle autorità ecclesiastiche di restituire i beni tolti agli ebrei durante il lungo periodo di persecuzione. Nei periodi arabo, normanno e svevo, essi conobbero una relativa prosperità e il loro numero aumentò. Nei secoli gli ebrei in Sicilia vennero sempre etichettati dal resto della popolazione in vario modo: durante la dominazione araba dovevano indossare come segno distintivo un cintura gialla, con Federico Secondo l’ultima lettera dell’alfabeto greco, e con gli spagnoli la rotella rossa.
Torniamo al periodo arabo, quando a Palermo la comunità ebraica si insediò in una zona ben precisa della città, che era suddivisa in due parti: Meschita e Guzzetta. Ma cosa resta oggi di quell’antico quartiere ebraico?
Cerchiamo di scoprire le tessere nascoste di questo mosaico attraverso le tracce che ritroviamo lungo le vie del quartiere, che oggi si inserisce all’interno di ben due quartieri: Kalsa e Albergheria. Spostandosi lungo le vie Calderai, vicolo Meschita, del Ponticello o la più nota via Divisi possiamo vedere delle targhe di colore bruno e bianco in cui è possibile leggere in tre lingue italiano, arabo ed ebraico il nome della strada. Segno del passaggio prima arabo e poi ebraico nella zona.
All’interno del quartiere scorre, sotterraneo il fiume Kemonia e proprio la presenza del fiume, della sua acqua fu fondamentale nella scelta degli ebrei di quella zona della città. L’acqua del fiume, per la comunità ebraica, era importante sia per la lavorazione del ferro che la creazione del bagno rituale. A Palermo il bagno rituale, il miqwè, venne distrutto. Era lì dove oggi sorge la chiesa di San Nicolò da Tolentino. A conferma di ciò, sul pilastro destro della Chiesa si trova incisa la seguente iscrizione: “Il restaurato edificio una volta fu mare, poi triste palude, quindi orto e tempietto; finalmente, con passar degli anni, da sinagoga divenne piccola cappella…”.
Fin ad adesso abbiamo parlato di antico quartiere ebraico e non di ghetto. Il ghetto nasce nel XVI sequenza del ghetto.
Era il 31 marzo 1492, quando Ferdinando II d’Aragona proclamò “l’editto di Granada” che prevedeva l’espulsione degli Ebrei dal regno di Spagna. Ecco che gli ebrei di Sicilia, che appartenevano al regno di Spagna, dovettero convertirsi al cattolicesimo oppure andar via. Ecco che il quartiere venne abbandonato e gli ebrei restanti cambiarono religione. Gli alti ufficiali del regno di Sicilia e lo stesso Viceré fecero di tutto per convincere Ferdinando il Cattolico a desistere, non solo prospettando tutti i problemi e gli inconvenienti di ordine commerciale e fiscale dell’espulsione. Molti erano bravi artigiani che difficilmente potevano essere sostituiti.
Oltre ai segni visibili in città legati alla toponomastica e ai monumenti come il miqwe di palazzo Marchesi, vi sono altri elementi che la cultura ebraica ha lasciato in città. Ad esempio, l’iscrizione in quattro lingue custodita alla Zisa, dove compare tra le lingue anche l’ebraico, oppure un’altra iscrizione, trovata sulla vera del pozzo del chiostro della chiesa della Magione di Palermo.
Ed ancora testimonianze della cultura ebraica sono i cognomi come : Lo Presti, Sala, Scimeca, Toscano, La Tona , Bonanno Bruno, Ascoli. E per concludere non possiamo non ricordare un piatto principe della cucina palermitana: il pane con la milza.
Gli ebrei che lavoravano per i macellai cristiani venivano ricompensati con le interiora degli animali . Ma poiché gli ebrei non potevano mangiare quel cibo, perché vietato dalla loro religione, pensarono di rivenderli ai cristiani. Cominciarono allora a bollire la milza, il polmone e lo “scannarozzato“, cioè le cartilagini della trachea del bue, l’affettarono soffriggendo nello strutto, e mettendo il tutto in mezzo al pane. Nacque così il tradizionale pane con la milza, una tradizione che venne continuata, dopo l’espulsione degli ebrei dalla città di Palermo, dai caciottari che aggiunsero il formaggio.