La settimana che va dal 7 al 13 di ottobre da qualche anno è designata come momento clou per l’informazione/conoscenza sui disturbi dell’apprendimento, meglio noti come dislessia.
Il bambino, l’adolescente, l’adulto dislessico è una persona con un QI nella norma, ma con una predominanza dell’emisfero destro su quello sinistro che invece ha la maggior parte della popolazione studentesca. Questo implica una mancata automatizzazione, nella maggiore dei casi, delle funzioni esecutive come leggere e scrivere e far di conto, o semplicemente allacciarsi le scarpe o abbottonarsi una camicia. Causa di ciò una decodifica assai impegnativa con conseguente capacità di immagazzinamento ridotte della memoria di lavoro.
Ricordiamo, però che anche se non si è dislessico, ci si differenzia l’uno dall’altro per il proprio stile cognitivo e quindi di apprendimento e per la preferenza del canale ricettivo dell’informazione in entrata e in uscita. Troppi alunni, di qualsiasi ordine di scuola, in difficoltà, appaiono disinteressati. Ma tale considerazione è assolutamente errata, soprattutto nel caso del dislessico, il quale è invece coinvolto da ogni tipo di stimolo attentivo: rumori, luci, il ronzio di una mosca, da forme, colori di cose e persone in movimento. La loro attenzione è costantemente sotto pressione, tanto da impedirgli di eseguire il compito assegnatogli bene e nei tempi prestabiliti.
Dal punto di vista deontologico la scuola deve (e non dovrebbe), essere il luogo che garantisce il “Diritto allo studio” che deve tradursi in percorsi cadenzati per ogni alunno. A questo punto la domanda spontanea è sempre la stessa: “ma come si può cambiare stile di insegnamento di continuo, per ogni alunno, spiegando la stessa cosa mille volte”? Si può!
Occorre utilizzare più canali espressivi per colpire più canali ricettivi, non dilungarsi sullo stesso concetto usando tanti sinonimi, ma offrendo una spiegazione, precedentemente anticipata e collegata agli apprendimenti già interiorizzati, chiara e diretta, anche supportata da una bella esperienza pratica e non solo teorica. Sappiamo anche, con il favore del rigore scientifico e dagli studi recenti in materia, che solo l’esperienza significativa si ricorda facilmente.
Ma cosa si intende per esperienza significativa? Quella che ci ha fatto sentire emozionati, gratificati, insomma che ci ha colpiti. Si parla tanto di motivazione della persona come forza propulsiva per mantenere un impegno intrapreso. Il docente, per il lavoro che ha scelto, deve essere sempre volitivo perché lo sia il suo studente.
Queste strategie, tecniche, modalità, chiamatele come meglio vi piace, non sono utili solo al Dislessico, ma a tutti gli studenti, alunne e alunni che crediamo oggi abbiano tutto…ma invece sono manchevoli di esperienze e situazioni fondamentali per una crescita equilibrata, sia del corpo sia della mente, situazioni che implicano accoglienza e disponibilità autentica da parte delle figure di riferimento, genitori, docenti, parenti, caregiver in generale, regole e tempo per imparare.
Sì, il tempo, regaliamogli il tempo necessario, se lo meritano. Dobbiamo essere quegli adulti che avremmo voluto incontrare da bambini.
Ottima iniziativa, purtroppo i pregiudizi sono ancora tanti e l’approssimazione quando non anche L’impreparazione dei docentialtrettanto vasta.
Bravissima come sempre: Chiaro..conciso quadro di una problematica sempre più diffusa . Complimenti, molto interessante giunge a proposito mentre seguo online : Dislessia amica
Nonostante termini come dislessia oggi entrano a fare parte del linguaggio comune non sempre la diagnosi giunge in tempo compromettendo le possibilità di successo scolastico e l autostima del minore.dunque è di fondamentale rilevanza la sensibilità e professionalità del docente.a mio parere c’è ancora tanto da lavorare sulla formazione docenti in tal senso.
Evviva queste iniziative !!!Condivido appieno il tuo pensiero …???